1 luglio 2014

Review: Goat - World Music

2012

La Svezia: nazione fredda, rigida, totalmente cupa o totalmente solare. Cuore, insieme agli altri paesi scandinavi, di truce black metal. Questa è l’idea più diffusa.
Evidentemente non è così a Korpilombolo, piccola realtà a nord del paese non distante dai confini con la Finlandia. Qui la tradizione è altamente legata ai rituali Voodoo che si dice siano stati portati da una strega guaritrice, insidiatasi prima dell’avvento del cristianesimo (ovviamente).
Proprio da qui provengono i tre membri fondatori della band dei Goat, prima di allargare la formazione con due membri di Gothenburg.

 
Per le strade della piccola comunità svedese pare si potesse ascoltare musica di vario genere, tra cui la popolare di stampo percussivo, il progressive rock anni ’70 e quella tribale legata alla tradizione voodoo improntata a far cadere in uno stato di trance.
Tutto questo si ritrova in World Music, disco pubblicato nel 2012 tramite Rocket Recordings, in cui la band svedese pare attingere alle (proprie) radici del suono: ritmiche tribali, sostenute da percussioni, fanno da sfondo a sonorità riprese dalla tradizione del rock anni ’70. Si trova, infatti, un basso Rickenbacker che non manca mai di essere sotto l’effetto del fuzz, mentre le chitarre si occupano maggiormente di portare l’ascoltatore in quello stato di trance che è pari solo a quello ottenuto durante un rituale. Il tutto si intreccia su una trama di essenzialità armonica, dove a farla da padrona è la ripetitività e ciclicità del brano. Summa perfetta di tutti gli elementi citati è il secondo brano dell’album, Goatman, dove si comprende al meglio anche lo stile prediletto per il cantato: due voci femminili, talvolta all’unisono, talvolta in controcanto, spingono fuori dalle proprie viscere tutta l’essenza dell’essere umano primordiale.
Un fils-rouge che attraversa tutte le tracce, interrotto saltuariamente come al termine di Goathead dove appare una dolcissima chitarra classica, oppure in Disco Fever dove il sentore di Africa è esaltato da un saltellante funky.
Passando dalla rollingstoniana Let It Bleed si approda finalmente alla conclusione del disco, dove in un brano posto tra Run To Your Mama e la traccia di chiusura Det Som Aldrig Forandras / Diarabi, si sperimenta l’ascesa che il rituale prometteva: di nuovo una chitarra acustica che accompagna delle voci, qui eteree, impalpabili, celesti.
La musica del mondo, suonata dalla punta più estremamente fredda, ma che rivolge il proprio sguardo ai territori più caldi, esibita dal vivo con coreografie e costumi tribali, ma soprattutto con maschere sui volti per lasciare ai suoni la visibilità totale.
Con la sua copertina palindroma, se ruotata di 180 gradi, oppure rappresentante delle ali, se ruotata di soli 90, World Music è un esordio discografico davvero interessante, che non ha mancato e non mancherà di portare sulla band una notevole attenzione.

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